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martedì 19 novembre 2013

AA.VV. IL MEGLIO DI SPLATTER



Il nuovo monolito Rizzoli Lizard ha tre caratteristiche fondamentali che gli permettono di farsi notare tra le novità esposte in fumetteria: il prepotente formato 21x28, la copertina di Marco Soldi, ma soprattutto il logo Splatter a caratteri cubitali forgiato sul tipico font della leggendaria testata. E così ho già il portafoglio in mano e sto contando 25 euro, colto da febbre malarica al pensiero di rileggere rubriche e storie che più di venti anni fa mi avevano rubato il cuore. Di sfuggita, mentre il commesso insacca l'acquisto, leggo in copertina che Dario Argento ha scritto l'introduzione e d'istinto ho un ripensamento. Valà - penso - è solo un'intro del menga che non potrà disturbare le dolci letture che mi attendono nel rustico tepore del mio salottino. Disturbare non disturba, epperò il Darione riesce a fallire anche scrivendo quattro righe celebrative, rimembrandoci di quando lui aveva creato una sua linea di fumetti (Profondo Rosso, formato bonelliano, brutta brutta), confondendosi tra ovvietà ed off-topic. Siccome quando acquisto un libro di siffatto tamaño me lo devo leggere tutto, comprese le note di produzione e l'indirizzo della casa editrice, mi infliggo in fretta e furia la breve lettura, giro ancora qualche pagina e inizia la magia. Si parte col maestro Micheluzzi e il racconto Pezzi da esposizione, perfetta sintesi della verve cinica e brutale che contraddistingue i migliori racconti della testata. Diciamolo, a scanso di equivoci: non tutte le storie selezionate dallo staff Rizzoli sono così ben riuscite. Ricordo, avendo consumato la collezione originale (che ahimè rivendetti al mercato nero in cambio di un tocco di fumo), diverse perle qui trascurate in favore di storie a mio giudizio poco rappresentative: Buone vacanze, Il primo tram e Gli occhi della bambola per esempio, che rilette ora appaiono davvero ingenue e senza sugo. Comunque, nel mucchio risplende senza dubbio Self-service, di Ferrandino e Brindisi, un racconto vagamente ispirato a L'arte di sopravvivere di Stephen King (pubblicato sulla raccolta Scheletri). Bel concentrato di ferocia e sberleffo, narra di un tizio talmente in fotta con sé stesso da considerare lurido e infetto il resto dell'umanità. Visto che ormai non si nutre più normalmente per paura dei microbi, scopre che il pasto ideale per un grand'uomo come lui non può essere che... la sua stessa carne. Dà il via così a un grottesco banchetto, partendo da un pollice del piede alla piastra, molto buono ma poco nutriente; armato di sega e anestetici, il povero coglione si taglia via la gamba fino al ginocchio, e poi su fino all'inguine. Intanto in cucina si diletta con brasati, tartara e wellington, continuando a segare prima l'altra gamba e infine un intero braccio. Rimasto a corto di arti e bloccato a letto in uno stato di semiputrefazione, decide da brava massaia di buttarsi nella spazzatura. E naturalmente il suo ultimo pensiero è: "che spreco tutto questo ben di dio..."
 La lettura dura un paio di minuti, ma con robusta concentrazione di dettagli gore. Davvero succulenta, per restare in tema. Parlando di Bruno Brindisi, non si tratta dell'unico fumettista reclutato in seguito da Sergio Bonelli Editore, giusto per chiarire quanto Splatter sia stata una buona palestra di futuri talenti quali Luigi Siniscalchi, Nicola Mari, Marco Soldi, Roberto De Angelis, Enea Riboldi, Giancarlo Caracuzzo (Alessandrini, Roi e il compianto Micheluzzi erano nello staff già da tempo) solo per citare i disegnatori. Ne ho dimenticato qualcuno?
Dalla miniserie Fiabe scannate è stata riproposta solo Cappuccetto rosso (di Ferrandino, Salvatore e Soldi), così come Primi delitti è rappresentato da Il tacchino vuole giocare (Di Orazio, Perrone e Soldi). Ottime storie, ironiche e feroci, nonostante lo scarso dispendio di plasma, strano eh? Come non citare infine Dolce (di Ferrandino e Siniscalchi), dove una coppia di gemelli cicciosissimi viene ingozzata ad libitum da un'avida mammina per sfruttarli come fenomeni di una serie televisiva. Ma la vendetta è un piatto che va gustato, punto.
  Splatter non era solo fumetti, ma anche rubriche e approfondimenti. Come Black & Decker, il manuale del fai-da-te dove si spiegavano le ricette dei maestri del cinema gore. Cercate di capire, all'epoca non è che ci fosse tutta sta gran cultura sul tema, e all'avvento dell'Internet mancava ancora un lustro o pressapoco. I fan si facevano i rasponi su Freddy Krueger, Leatherface, l'Esorciccio, Jason Voorhees e poco altro. Mentre negli Stati Uniti impazzava Fangoria qua da noi il genere veniva liquidato come semplice spazzatura nauseabonda. Splatter se ne usciva con pezzi meravigliosi su come costruirsi cadaveri squartati, su come far gonfiare la gola a una creatura, ti raccontava come usciva il Chestburster dall'addome di John Hurt spiegandoti i trucchi nel dettaglio. Come non amarli? Divoravo avidamente quelle pagine proibite, sperando che la mamma non trovasse le riviste, nascoste sotto il letto come volgari pornazzi. Oltre al momento didattico, ogni mese un approfondimento si occupava degli aspetti più reconditi della cultura splatter: indagini su casi spaventevoli realmente accaduti, racconti scellerati, interviste, analisi critica di materiale originale. Proprio in uno di questi articoli, peraltro presente nel volumone Rizzoli, venni a conoscenza del bestiale Urotsukidoji: Legend of the Overfiend, un Cultone Animato che riuscii a vedere solo anni dopo, quando i vhs costavano 45mila lire e il trend di manga e derivati stava definitivamente per decollare. Roba delirante per l'epoca, recensire un kaiju/tentacular rape estremo dove cazzi giganti distruggono le metropoli a sborrate, demoni e bestie vanno in giro tranquilli a stuprare, squartare, evirare, il tutto rappresentato senza la trista censura degli organi genitali maschili e femminili. All'epoca non potevo saperlo, nè immaginavo che la violenza potesse essere rappresentata in modi così esotici e creativi, ma presi nota e tirai avanti finchè non riuscii a mettere le mani sull'opera in questione. E allora fui davvero grato a Splatter, per avermi messo sulla via dell'insalubre cultura horror orientale.
 Splatter fu oggetto di persecuzioni et similia, tuttavia vi risparmierò il pistolotto sul moralismo di una classe dirigente che, partendo da un'interrogazione parlamentare, portò alla chiusura delle testate Acme e alla condanna per istigazione a delinquere di alcuni suoi collaboratori. E' comunque interessante leggere un articolo dell'Espresso a cura di Roberto Cotroneo dal titolo Che horror!, riportato per intero nell'edizione Rizzoli. Il giornalista, palesemente ostile alla materia, si spreme nell'infliggere parabole morali a lettori e redattori, buttando nel mucchio tutti i fumetti che all'epoca trattavano l'horror (probabilmente non immaginando il suo roseo futuro), alternando approcci psicoanalitici alquanto discutibili (con tanto di box curato dalla "specialista") ad una visione manichea come non se ne vedeva dai tempi del naufragio della gloriosa E.C. Oggi un articolo del genere verrebbe liquidato con un sonoro pfui, ma all'epoca quotidiani e riviste nazionali agirono compatti contro la minaccia alla psiche dei giovini virgulti della patria, con titoloni subnormali che manco Cronaca Vera in stato di grazia. Almeno sappiamo chi dobbiamo ringraziare per quella caccia alle streghe.
 Nel volume sono inoltre presenti tutte le splendide copertine di Marco Soldi più un'autentica pagina della posta vergata col sangue e giunta all'epoca in redazione. Ultima nota tecnica negativa per la qualità altalenante della stampa e i bozzi che ho trovato sulla copertina, mannaggia alla febbre tropicale che mi coglie quando sbavo in libreria davanti agli amarcord. Per il resto, si tratta di un volume imperdibile per i nostalgici dell'epoca d'oro del fumetto horror italiano, o per le nuove leve che si abbeverano al ripulito filone contemporaneo e ignorano le origini, ma anche per i semplici appassionati del genere alla ricerca di storie ben scritte e disegnate. Se invece non avete svenduto la collezione originale perchè avevate le pezze al culo, potete anche farne a meno e continuare a consumare quella!

sabato 13 luglio 2013

MUSICA PER ORGANI CALDI


A proposito di bollito (vedi articolo precedente), sono in attesa di Phil Anselmo and The Illegals - Walk Through Exits Only: probabilmente ne scriverò a settembre (assieme alla parzialmente defunta recensione di Tomorrow's Harvest). Nel frattempo sto creando il mio primo videogame, una cosa davvero impegnativa per i miei standard lavorativi, quindi mi rimane poco tempo per scrivere qui. In compenso ascolto un sacco di musica e nei ritagli preparo i mixtape per le ferie. Il 2013 è stato finora parecchio generoso con l'elettronica d'avanguardia (Holden, Bibio, Siriusmo, Mount Kimbie e Fuck Buttons); idem sul fronte opposto (heavy/psych/stoner/doom/prog e cazzivari), abbiamo perle di rara intesità come l'ultimo Uncle Acid (Mind Control), il meraviglioso Abra Kadavar dei Kadavar (che ahimè non usano Soundcloud), il nuovo dei Naam (Vow), quei tuonati dei The Flaming Lips (The Terror). Quaggiù trovate l'apice dell'apoteosi di 7 mesi di ascolti eterogenei e turbolenti. La lista sarebbe gargantuesca, mi limito a 10 perchè lo spazio è tiranno e devo nutrire la mia creatura: quando sarà pronta la demo, non mancherò di testarla sul blob. See ya!
 

DAVID LYNCH: THE BIG DREAM. UNA RECENSIONE FRETTOLOSA


lunedì 17 giugno 2013

OUTRAGE: BEYOND


Non so a voi, ma a me la cosiddetta "trilogia del suicidio" m'ha fatto due palle così. Con Outrage si tornava finalmente al rigido Beat-protocollo: mignoli mozzati, brutali percosse, malavitosi che urlano ARROH BARROH ARRAH NANDE RRAH ORREAH, sbirri corrotti, deferenze a 90°, e naturalmente i meravigliosi tic di Tikano. Kitano.
Si tornava a sperare insomma. L'eccessiva durata indulgeva talvolta nella noia ma ciò non significa nulla, la noia è un fattore intrinseco al medium cinematografico e bisogna saperci fare i conti. Anche Miike annoia. Sion Sono annoia. Kurosawa (Kiyoshi, eh) annoia. Tsukamoto non annoia, ma è un altro fottuto campo da gioco. Outrage narra per l'appunto di un oltraggio, debito che si contrae facilmente negli ambienti della yakuza, dove basta mezza occhiata storta al capo e devi tagliare il dito. La faccenda è molto più grave: Otomo (Takeshi Kitano) e la sua gang vengono incastrati dal boss Ikemoto in una faida mortale, ordita dal capo supremo della famiglia Sanno, deciso a sbarazzarsi delle famiglie scomode al fine di sbafarsi tutta la torta tra estorsioni, pachinko, pornografia e speculazioni di varia natura. La faida termina con lo sterminio totale dei membri affiliati ad Otomo, il quale si salva in extremis affidandosi al suo kohai (contrario di senpai) poliziotto, e finendo al fresco dove morirà poco dopo pugnalato da un vecchio rivale.
Nel finale il vice-capo dei Sanno, il servile e vessatissimo Kato, mette in scena l'ennesimo tradimento, uccidendo il boss e prendendo possesso del clan.
Autoreiji: Biyondo inizia qualche anno dopo gli eventi narrati nel precedente capitolo. Kato ha reso possibile l'egemonia economica del clan, tuttavia alcuni capifamiglia sospettano della strana dipartita del precedente boss e progettano di rovesciarlo. Il complotto li porta a conferire con la potente famiglia Hanabishi ad Osaka, nella convinzione che i rivali appoggino il loro progetto di repentina destituzione del boss, ignorando però l'alleanza che lega segretamente le due cosche. Al ritorno del drappello a Tokyo infatti ci scappa il morto, che nonostante le infinite prostrazioni e i salamelecchi, si becca un proiettile sul grugno a monito per i poveri illusi con ambizioni sovversive. Il sospetto tuttavia s'è insinuato tra le famiglie, e chi tenta di approfittarne è il solito sbirro corrotto e doppiogiochista. Nel frattempo si scopre che Otomo era sopravvissuto alle pugnalate, e sta per uscire dalla galera...
Il film parte lento e cerimonioso, si concede qualche assaggio violento, prosegue ieratico con una mdp leggermente più mobile rispetto al predecessore. Scene misuratissime, che rilasciano piccole dosi di meravigliosa tensione frustrata. Nulla sembra accadere nella prima metà del film, se non chiacchiere, estenuanti riunioni al sakè e pochissime pistolettate. In quest'atmosfera astratta, dove la civiltà umana è inesistente o completamente ignorata, cova il Kitano beffardo pronto a scannare lo spettatore con aggressioni di prim'ordine. Chi ne conosce la filmografia sarà adeguatamente preparato. È un Kitano manierista di sé stesso, eppure insolitamente fresco e brillante, con le paranoie d'autore finalmente lasciate alle spalle, concentrato su ciò che sa fare meglio. Molteplici i punti di contatto con i vecchi classici quali Sonatine, Boiling Point, Violent cop, Hana-bi; è accantonata però la vena più poetica, quella che andava accostando la pittura alle esplosioni di straniante violenza. Estetica tutta concentrata sulla fotografia, bandite le metafore, rimangono solo i burattini manovrati dall'onore e le sue regole. Kitano calca la mano sulla caratterizzazione dei protagonisti, ne esalta il lato grottesco fino alla parodia, escogitando interessanti soluzioni. Su tutte troneggia la scena del meeting tra Otomo, il suo compare Kimura e il gruppo Hanabishi di Osaka. Contrapposti a un gruppo di yakuza vecchio stampo, parlata biascicante e facce deformi (Lombroso docet), troviamo un Kitano molto performante alle prese con una scaramuccia estemporanea potenzialmente distruttiva. La rozzezza della discussione, la crescente tensione fisica delle parti in causa, le smorfie coreografiche, creano una sequenza al contempo esilarante e drammatica, placata con garbo dal feroce gesto di autocannibalismo di Kimura (si stacca un dito tra le fauci). Altri tipi o stereotipi, il boss nippo-coreano dalla fronte altissima che suscita ilarità (ma forse è un problema mio), il traditore che si piscia addosso tra urletti e scongiuri, i bulli da fumetto affiliati a Kimura, contribuiscono a rafforzare l'essenziale folklore di una società impenetrabile come la yakuza.  

Uomini con la fronte altissima

Oltre l'oltraggio: la trama si focalizza sulla doppia vendetta di Otomo e Kimura. In agguato, la tortura che ognuno vorrebbe perpetrare al proprio peggior nemico; chiude in bellezza, un epilogo tagliato con l'accetta. Contribuiscono a consolidare il buon risultato un corretto equilibrio tra violenza e humour, l'assoluta mancanza di una qualsivoglia morale a guastare la visione, un intreccio narrativo complesso ma non ammorbante, attori comprimari scelti con più criterio rispetto ad alcune facce da tonno del primo capitolo. Kitano esce senza dubbio rinvigorito dalla doppietta Outrage, a conferma delle teorie sulle sue cicliche cadute e rinascite. Ha saputo ritrovare una poetica coerente come autore e regista, in barba alla crisi che lo aveva investito lasciandolo agonizzante e con un ciclo di film patetici da spiegare a un pubblico esterrefatto. Nonostante il risultato sia certamente sottotono rispetto ai capolavori del passato, dove era riuscito a distaccarsi dal genere in modo imprevisto e naturale (ciclo che culmina col sorprendente Zatoichi), la strada imboccata pare quella giusta, e noi non possiamo far altro che chiedere, a gran voce, more of the same, and glory to the filmmaker!


martedì 11 giugno 2013

THE WITCHER 3: WILD HUNT TRAILER




Questo trailer capita a fagiuolo, dato che sto concludendo la lettura dell'ultimo Sapkowski edito in Italia (Il tempo della guerra). Immagini che mostrano un Geralt più scontroso e risoluto del solito; del resto, c'è il girovita di Yennefer in ballo.
Godetene tutti, che è tanta roba davvero.

sabato 8 giugno 2013

THE BOYS #18 OUT NOW!


Fomento, gioia e distruzione allo stato puro! Gli eventi messi in moto negli ultimi numeri di The Boys si focalizzano brutalmente sull'attesissimo finale, uno spaventoso crescendo confezionato ad arte per tenerci incollati e palpitanti alle pagine di un numero da incorniciare. Un tripudio di sbudellamenti, decapitazioni, decervellamenti e mutilazioni come non se ne vedeva da un pezzo su questi lidi. Oh, e un colpo di scena decisamente spiazzante. Vediamo molto brevemente di cosa tratta questa serie, per i pochi eremiti che non conoscono la strana creatura di Garth Ennis.
Quella dei Boys è una squadra che si occupa di tenere sotto controllo i supereroi per conto della CIA. Dietro l'immagine patriottica e benevola dei super, diffusa capillarmente dalla multinazionale Vought-American che ne detiene i diritti commerciali, si cela infatti una banda di psicotici, tossici, sessuomani e disadattati di ogni specie, dotati artificialmente di superpoteri mediante la somministrazione di un composto chimico segreto (il "Composto V"). La squadra dei Boys di Billy Butcher, composta dal Francese, Latte Materno, la Femmina della Specie e Mallory, non va per il sottile quando si tratta di raddrizzare i bastardi in calzamaglia, decimandone le fila con violente rappresaglie condite da prese per il culo da sbellicarsi.
Quando all'ignaro scozzese Hughie viene per errore maciullata la fidanzata da A-Train (un super del gruppo dei Sette), Butcher lo introduce al mondo dei Boys, iniettandogli il Composto V e mostrandogli il vero volto della Vought-American e delle sue nefaste creazioni...
Sostanzialmente The Boys è una storia di vendetta, quella di Butcher in primo luogo, così come quella di Hughie (modellato sulle fattezze dell'attore Simon Pegg); si tratta di due personaggi complementari, caratterialmente opposti, che condividono una grave perdita a causa dei sadici trastulli dei Super.Tuttavia ciò che rende grandioso questo fumetto è la devastante satira ai danni della cultura supereroistica, cosa che fece naturalmente inorridire DC Comics, che infatti cedette di buon grado la serie a Dynamite Entertainment, dopo appena sei numeri dall'inizio delle pubblicazioni. Lo schema di genere è completamente ribaltato: i supereroi sono perversi e abbietti, i loro fan solo statistiche a usufrutto delle corporation, i normali esseri umani sono giocattoli da spremere e scopare all'infinito durante le orge degli insaziabili superuomini. Anni di cinema che cerca di propinarci il supereroe conflittuale e problematico vengono spazzati via da un semplice constatazione: da grandi poteri derivano peggiori bestialità. E a me va benissimo, che non sono mai stato un gran lettore di supereroi, pur riconoscendone tutti i meriti culturali e le persecuzioni che ha dovuto sopportare. La serialità però non la digerisco. Le vendite crollano e poi lo vedi cosa succede, devi fare i revamp, i crossover, gli outing, i fisting per tenere sveglio un pubblico anestetizzato, e in questo The Boys picchia sodo, va a stuzzicare quel nervo scoperto con un piede di porco. L'industria del fumetto strizza i brand fino a cavarne ogni stilla di magia in nome del profitto: ricordate cosa fecero a Lobo? Ennis tiene duro e rimane 100% hardcore per tutti i 18 volumi, pur con qualche calo di tono qua e là, sistemato ad hoc per allungare la broda. Beh, anche Preacher s'impantanava a tratti, ma pochi si sono lamentati. Lo sceneggiatore irlandese ridicolizza malamente i suoi bersagli, dal funzionario della CIA feticista degli handicap, al vicepresidente degli Stati Uniti visibilmente subnormale che richiede pompini a gran voce, alle famiglie bigotte che partecipano ai raduni religiosi di facciata organizzati dalla Vought. Non lesina su gore e dettagli pornografici, presenti in dosi da cavallo: tutta roba ovviamente mai vista nelle classiche saghe Marvel/DC. Il risultato è un adrenalinico, folle spettacolo per stomaci foderati con setole di suino. Ne verrebbe senza dubbio fuori un gran bel serial tv (l'idea c'era...), visto anche il successo di esperimenti analoghi, alla Misfits per intenderci. Meno fiducia ripongo nell'idea di un film, ma sarei ben felice di essere smentito.
The Boys #18, penultimo numero (negli Stati Uniti la serie è già conclusa): dopo alcuni spin-off che indagano le origini della missione e il passato di Butcher e compagni, le trame convergono sullo scontro finale tra i Boys e i Super, radunati a Washington da un folle Patriota. Butcher si getta nella mischia pronto ad assaporare la sua vendetta, ignaro di cosa veramente lo stia attendendo in agguato assieme al suo peggior nemico..
Ancora un volume ci separa dunque dalla fine: nell'attesa, ecco la splendida, eloquente copertina del prossimo numero.


Arte. Chi può davvero definirla?

mercoledì 5 giugno 2013

BOARDS OF THE DEAD



Da Tomorrow's Harvest, nuovo disco dei Boards of Canada. 


Da Day of the Dead di George Romero, 1985.


A presto per la review.

mercoledì 29 maggio 2013

LA CASA (2013)




Joss Whedon e Drew Goddard avevano creato il perfetto anti-remake di Evil Dead, The Cabin in the Woods (Quella casa nel bosco): che bisogno c'era allora di ferire in nostri sentimenti con questo rifacimento sciatto, ottuso, conformista, senza shaky cam, che non lascerà un cazzo ai posteri se non la chiazza di merda sulla memoria di un cult movie senza tempo?
Ma andiamo con ordine. Partiamo dalla Oldsmobile Delta 88 gialla. David (Shiloh Fernandez) incontra la sorella Mia (Jane Levy) seduta sopra il cameo automobilistico di cui sopra, proprio all'inizio del film. Implicito messaggio allo spettatore nostalgico: toh l'auto di Ash, piantala di stare sulla difensiva, rilassati e tutto andrà benone! E in effetti tutto sembra andare benissimo nella prima mezz'ora, se escludiamo le sagome di cartone degli interpreti, un branco di orate senz'anima. Certo il cast originale non vantava sti gran cultori dello Stanislavskij, ma almeno c'erano il carisma, la fisicità e il monociglio di Bruce Campbell, più l'energia della gioventù a reggere l'impalcatura del film (giacchè siamo in tema edilizio).
Nel 2013 abbiamo solo una patina d'apatia strisciante, belle facce vuote, tant'è che nel mucchio riusciamo a distinguere solo il carattere di Mia, la sorella tossica conciata da tossica ovvero l'espediente per giustificare la presenza degli "amici" (che la vogliono redimere) nella baita degli orrori, succursale di San Patrignano. Vago sentore di moralismo statunitense, barricato in botti di ruffiana mediocrità. Mia viene insomma costretta a una degenza forzata nella Casa, coadiuvata da amici et familiari del cuore: un freakettone stranamente antidroga (Lou Taylor Pucci) e la sua morosa (Jessica Lucas), David e la sua compagna (Elizabeth Blackmore). Viene buttato lì una sorta di pippone tedioso sull'assenza di David dalle vicissitudini familiari degli ultimi anni: scopriamo così che mentre lui badava ai fatti suoi, Mia badava alla madre pazza, colleghiamo sbadigliando i pezzi del puzzle, è chiarissimo perchè ha iniziato a farsi ma non ce ne frega nulla! Meanwhile, viene scoperto IL sotterraneo, ch'è pieno di gatti morti. Omg il voodoo, si decide di ripulire il fetido bordello e così salta fuori il libro dei morti, rilegato in pelle umana ed illustrato da capaci fumettisti. Gli eventi stanno per precipitare, l'atmosfera è greve; Mia decide che deve tornare a casa per procurarsi le sostanze. Ruba la macchina e derapa via, ma si è messo in moto anche l'ineluttabile: il capellone balordo ha letto tutti i brani nefasti dal Necronomicon! Per farlo utilizza lo stesso trucco del Drugo Lebowski con l'appunto di Ben Gazzara (che mostrava un tizio col cazzo duro): appoggia dei pezzi di carta sul libro e ci sfrega su il lapis, rivelando delle malefiche iscrizioni. Morte e distruzione si abbattono su quella casa: e qui l'iperrealistica, prolungata carneficina fa del suo meglio per scuoterci dal torpore senza lesinare sul gore, ed è cosa buona..
Ma.
Non conoscerai terrore più grande, recita lo spottone del film. Probabilmente lo spettatore americano medio, quello che sobbalza in poltrona durante la proiezione di Paranormal Activity rovesciando l'abnorme pitale di burro e popcorn, si sarà spaventato moltissimo. Il film annoia. Rinunciando a qualsiasi forma d'ironia, il racconto diventa una puerile scampagnata splatter fiaccata dall'assenza di idee registiche, che pure decretarono il successo dell'epopea di Ash. Scisso in due personalità piatte e deprimenti (fratello/sorella), l'eroe non offre alcuna immedesimazione, rimedia solo sbadigli e pernacchie. L'artigianale gusto naif lascia il posto al bignamino dell'horror contemporaneo, fatto di movimenti a scatti stile Sadako, armi postmoderne come la sparachiodi, assenza di zinne per non turbare i casti sogni degli adolescenti. E pensare che c'era anche un principio di tentacular rape nella scena del bosco animato...
A completare il tristo quadretto, una raccolta di dialoghi pietosi, che gettano grande enfasi su un genere di turpiloquio in voga ai tempi dell'esorciccio (quando parlano i cattivi). La cosa più seccante è però il gioco della citazione, che mastica e risputa sottoforma di bolo viscido tranci casuali di Evil dead 1 e 2.
E così il bagno di sangue nello scantinato diventa una mesta pioggia rossa nel finale (quanti galloni stavolta?), gli arti mozzati diventano tre, l'"inghiotti questo" rivolto ad Henrietta si trasforma nel rude "Sbrana questo, bastarda", e via citando a casaccio.
Che senso ha dunque quest'operazione? Non è un remake fedele, non è un film originale: è solo un'accozzaglia di ideucce malcagate ispirate a due grandi film, dove un eroe soverchiato dalle forze del male si faceva strada a colpi di motosega, fucile a canne mozze e battute memorabili.Non si pretende di mettere originale e remake sullo stesso piano, sono passati più di 30 anni; nè si pretendeva da Fede Alvarez lo spirito pionieristico del Raimi che fu. Si chiedeva una discreta attinenza con lo spirito originale. La foga di reinvenzione reboot(tante) soccombe sempre sotto l'onda d'urto generata dallo scontro tra la fotta da hype e la dura realtà.
All'industria del remake ormai non resta che saccheggiare il body horror. Ecco, un remake di From Beyond sarebbe una cosa buona, ma non Evil dead.

mercoledì 22 maggio 2013

A LONE DEVELOPMENT: LONE SURVIVOR


C'è un singolare aneddoto collegato alla mia scelta di scrivere su questo survival horror indie uscito nei negozi digitali esattamente un anno fa. Qualche sera fa seguivo gli ipertesti relativi alla figura di Jasper Byrne, il "lone developer" autore del gioco, per scoprire in seguito a una dozzina di click che l'eclettico giovanotto è un producer drum & bass, col nome da battaglia Sonic, per svariate importanti etichette (MetalHeadz e Hospital su tutte).
Una carriera che inizia nel 2000 ed include, tra le decine di produzioni, anche un remix dell'eccellente Pacman (2008) del celebre duo Ed Rush & Optical, dall'lp The Creeps. Ancora videogames dunque (Sonic, Pacman): si vede che la pulsione era irresistibile. Comunque, il fato volle che nella mia collezioncina di cd ci fosse proprio una delle migliori produzioni targate Sonic, raccolta nella compilation The Shopfloor Album che possiedo dal 2001; la traccia si intitola Stars ed è una bella scheggia di violenza old school, tornita e liquida il giusto, abrasiva quanto basta. Saltuariamente in collaborazione col compare Silver (altro nick in odor di Megadrive), ha prodotto negli anni una congrua quantità di ep, si è inserito in molteplici raccolte. Parliamo di ben 167 releases! Qui trovate la lista integrale (anf!).
Il punto è che Byrne, parallelamente, produce tutt'altro tipo di sonorità, molto distanti dall'aggressione perpetua tipica del sound d&b: immaginatevi la mia sorpresa nel riascoltare Stars, il tentativo di collegarla ai tenebrosi arrangiamenti (soprattutto strumentali) di Lone Survivor. Byrne si è infiltrato anche nella colonna sonora del successone Hotline Miami con ben due tracce: siamo dalle parti di un synth-pop anni '80, genere che di recente ha goduto di una bella rinfrescata, parallelamente alla riesumazione di certi aspetti di quegli anni bui che ci piacciono meno (abbigliamento, pettinature, jazzercize). Il basso pompa e la chitarra rockia (cit.), e tanto basta per garantire a Byrne un posticino nell'olimpo dei compositori per videogame, considerati gli illustri precedenti e l'encomiabile versatilità creativa. Naturalmente pagherei una bella cifra per sentire cassa e rullante sferzare le cartilagini a 1000 bpm su un gioco plasmato a modino sulle basse frequenze. E magari il progetto è già in cantiere, visto che Byrne abita a Tokyo (dove certe follie non sono certo invise): sperare non costa nulla.

Lone Survivor non è il primo videogame sviluppato da Byrne: due precedenti progetti sono usciti per Amiga, la macchina da homework per eccellenza, feticcio nostalgico di videoluders e techno producers fai-da-te. Si, era anche un mio feticcio: iniziai a creare i primi modelli in Pixel Art con un Amiga 1200, i primi video 2D con Deluxe Paint e mixer audio/video, e quindi i primi lavori pagati, quando avevo 16 anni. Il percorso di Byrne deve avere preso però la giusta piega, tanto da attirare l'attenzione di sua Maestà David "Frontier" Braben, che in tempi recenti l'ha trainato sul barcone di Kinect Animals, mega produzione per famiglie di cui poco ci frega, ma che sicuramente ha giovato alle finanze del povero Jasper. Non a caso, uno degli aspetti che caratterizzano il gameplay di Lone Survivor è la fame; in un'intervista, l'autore ha dichiarato di aver dato fondo a tutti i suoi risparmi durante la realizzazione del gioco, durata 4 anni, e di aver lavorato anche per 48 ore di fila nelle fasi di chiusura.. Per un clubber consumato non dev'essere stata troppo dura, qualche rimedio per la stanchezza sarà saltato fuori.. A conferma di questa tesi, poco dopo l'inizio di Lone Survivor riusciamo a scovare una fornitura illimitata di tre qualità di pillole dagli effetti variegati, il cui consumo (a discrezione del player) influisce sui 4 finali possibili.. Fame, stanchezza e dipendenza dalle droghe sono elementi prelevati dal reale che incidono sulla tensione emotiva provata dal giocatore. Fattori che distinguono Lone Survivor dalla routine del classico eroe survival: spara e squarta, sposta il mobile, mangia l'erbetta, affronta il boss e continua, sempre ebbro di vita e scoppiettante di salute.
L'anonimo protagonista di Lone Survivor è spesso logoro e strapazzato, sull'orlo della pazzia o dello svenimento, in preda a dubbi atroci e allucinazioni violente. Del resto, non saremmo conciati così anche noi in un mondo alla 28 giorni dopo? Chiude il cerchio la possibilità di completare il gioco evitando qualsiasi spargimento di sangue (di mostro): dovrete ragionare in termini strategici per adempiere alla vostra natura pacifica, e regalarvi il finale migliore.
Lo spessore del gioco non si esaurisce certo qua: sono presenti bivi, personaggi non giocanti, crafting tra oggetti per mangiare meglio e sudare meno, animali domestici e consolle portatili per passare il tempo e sentirvi meno soli, dialoghi a risposta multipla ed incubi sempre differenti, una trama per nulla scontata, dalle molteplici sfumature.. Artisticamente l'opera è superba nel suo minimalismo pixelloso, un grande tributo all'epoca d'oro delle avventure grafiche, al Nes, all'Amiga, al C64. La giocabilità risente talvolta del sistema di controllo via tastiera un tantinello macchinoso, specie quando si tratta di sparare con l'unica arma disponibile, una pistola automatica. E tuttavia sono leggerezze su cui si può e si deve sorvolare. Per le musiche, come già detto, siamo su altissimi livelli. Oh, dimenticavo: se volete provare Lone Survivor, esiste una demo in formato Flash a questo indirizzo: una prova sul campo vale più di mille parole, e poi di recensioni ce n'è già a bizzeffe che spiegano il gioco per filo e per segno, quasi sempre tessendone le lodi in modo sperticato. Un ottimo risultato per un gioco che su Steam viene quasi regalato (6,99 euro).

Conclusione: come può un uomo solo aver prodotto tutto sto ben di diavolo? E' il Lone Developer la figura di riferimento per il futuro videoludico?

Vi lascio al trailer.

venerdì 17 maggio 2013

AMONG THE SLEEP DEMO



Stavo per pubblicare una cosuccia su Lone Survivor (anche se è uscito l'anno scorso vale la pena di riflettere su alcuni spunti interessanti) quando è saltata fuori la demo di Among the Sleep, dei Krillbite Studio.
Lo studio in questione è appena riuscito a raggiungere l'obiettivo minimo dei 200.000 $ su Kickstarter (il celebre sito di crowd funding), con l'aggiunta mica risibile di altri 23k dollah a 41 ore dalla fine della corsa al finanziamento. Di giochi horror non ne escono mai abbastanza. Vi risparmio la filippica sulle ultime penose derive action dei maggiori brand del genere, che fanno schifo a tutti et cetera: il punto è che per un assaggio di brivido videoludico sono disposto a sorvolare su una marea di difetti, purchè il gioco abbia il giusto sugo. E dal sugo di Among the Sleep viene un buon profumo. Il punto di vista è piuttosto originale: nei panni di un bambino di due anni, visuale in soggettiva, iniziamo ad esplorare la stanza dove eravamo appisolati, gattonando con sprint tra arredi e giochi. Si prosegue nel percorso scavalcando e trascinando sedie o scatoloni per raggiungere punti altrimenti inaccessibili, mediante un metodo di interazione che ricorda l'adorato Amnesia. Una volta recuperato il fido orsetto (creatura oltremodo inquietante), il breve estratto giocabile ci porta per mano fino al confine tra sogno e realtà che fa da titolo, e che stranamente si trova nello scantinato (valà?). Tiriamo le somme: il movimento del bimbo è da vomito, non conta se avete macinato miliardi di fps, vi verranno sicuramente i capogiri, le vertigini o il colpo della strega nei casi peggiori. La grafica (come il suo motore) è datata ma pulita e va benone per un gioco indie. I pollici su vanno senza dubbio alle atmosfere, costruite su audio e direzione artistica, nonchè dalla sconcertante sensazione di guidare una creatura così atipica e goffa. Benchè sia ancora presto per stracciarsi le vesti, i presupposti per una bella esperienza ci sono tutti, basta che alla fine il protagonista non abbia la faccia di Lucius..
Se volete sovvenzionare ulteriormente il progetto, voilat la pagina Kickstarter.
In fondo alla stessa pagina trovate la demo per PC, Mac e Linux.
Ed ora il filmato di presentazione. Sogni d'oro.

   

martedì 30 aprile 2013

MINUS - THE PHONOGRAPH



Scovare tesori nascosti è il passatempo prediletto di Scrooge McDuck, al secolo Paperon de' Paperoni: l'avaro pennuto non bada a spese quando si tratta di trascinare il parentado in giro per il mondo, antica mappa alla mano, a bordo dell'ennesimo, avveniristico trabiccolo, predisposto all'uopo da un allucinato Archimede Pitagorico. Paperone deve avermi trasmesso il morbo (avrei preferito una trasfusione di contante), e come lui da giovane nelle miniere del Klondike, m'inerpico giornalmente nei giacimenti dell'Internet alla ricerca di pepite audio nascoste tra la mota.
La rete trabocca di artisti che aspettano solo di invadere il nostro apparato uditivo. Ascoltatevi almeno un paio di dischi al giorno, e con una certa costanza salta fuori il drop leggendario.
E così arriviamo a questo The Phonograph. Immaginatevi Scorn e Angelo Badalamenti che fanno un disco assieme: ipnotico trip-hop su tappeti horror suggestivi, più alcuni sample alla Akira Yamahoka, con quel tocco malinconico e graffiante.. Minus prepara una ricetta da gourmet camuffando gli ingredienti fin dalla grafica dell'lp: quel teschio vagamente steampunk proietta (il mio) immaginario verso lidi blackmetal, o verso qualche elucubrazione sperimentale davvero poco orecchiabile. Evoca però anche un aspetto cruciale del disco: l'amore per l'horror. Volendone trovare un corrispettivo cinematografico, il design del suono ricorda la ricerca compiuta da Alan Splet per il cinema di Lynch: suoni oscuri provenienti da dimensioni aliene introducono brevi squarci di groove minimale, che si stempera quasi subito nell'ambient. Il loop non è padrone come nelle produzioni di Mick Harris (Lull, Scorn): tenta piuttosto di mettere ordine in un paesaggio decadente, pervaso da sensazioni negative. Questo meccanismo è evidente nella traccia più carismatica dell'album, la numero 4: The Fields. La lunga intro crepuscolare, orchestrata su scarni suoni artificiali e morbosi background, prepara l'innesto improvviso di un sorprendente beat industriale, a tratti sincopato, che tuttavia si esaurisce in poche battute. Il senso di mistero è amplificato dalla totale assenza di voci umane: il mondo di The Phonograph è una cripta ermetica abitata da presenze mute.. Ricollegandoci al parallelo con Alan Splet, la prima traccia (Relapse) si presenta come un'autentica citazione al lavoro del geniale sound designer: ricordate il carrello iniziale che esplora l'habitat di Eraserhead, accompagnata da un disturbante riverbero industriale in crescendo? E di nuovo l'improvvisa esplosione del beat azzera tutto, ripartendo dal tempo per definire lo spazio. Proseguendo nell'ascolto, ritroviamo il medesimo gioco alternato ad esempi di ambient incontaminata, fino a giungere alla misteriosa The 13th Conjunction, lunga traccia conclusiva pervasa da un'abissale inquietudine e priva di alcuno spunto percussivo.
Se vi piacciono il trip-hop e il cinema horror prendete in seria considerazione l'acquisto di questo disco, forte di una lunga gestazione (l'inizio dei lavori risale al 2008) che traspare dalla cura riservata ad ogni aspetto produttivo. In alternativa, potete ascoltare gratuitamente l'album (che nel frattempo si è arricchito di altre 5 tracce) dal sito ufficiale di Minus linkato alla fine dell'articolo.
Incoccare le cuffie, buttare giù qualche drink e/o tirare da uno spliff (se siete avvezzi): ecco un buon modo per godersi le tracce predisposte da Minus per quest'esordio nell'elettronica di qualità.

Sito ufficiale: http://minusspades.bandcamp.com/
Soundcloud: https://soundcloud.com/minustyler

Bonus :)




martedì 23 aprile 2013

X'ED OUT, THE HIVE


Si, lo so che sono usciti da un pezzo. E' che mi sembrava il modo migliore di iniziare, qua sul blog: celebrare un capolavoro annunciato di cui in fondo, nei blog nostrani, si è parlato poco. 
Il mio primo approccio con l'opera di Charles Burns fu un articolo letto (sbranato) sulla rivista Splatter, defunta ammiraglia della gloriosa casa editrice Acme. Le immagini di Burns, grottesche e nitide, impeccabili come xilografie, erano la perfetta commistione tra il fumetto underground statunitense e le atmosfere putrefatte della EC Comics: un meraviglioso, perverso incubo d'inchiostro!
Passano gli anni, passano i governi, Coconino porta in Italia il primo volume di Black Hole. Il primo di tre, poi riuniti in un unico copioso volume. Un'opera dalla lunga gestazione (11 anni), doverosa per la complessità del materiale grafico e per l'intreccio narrativo dal grande spessore. Il risultato è notevole: Black Hole scruta nel buco nero della provincia americana, materializzandone gli incubi in un flusso di immagini ipnotiche ed elettriche, precipitando il lettore in un trip dal quale emerge a fatica, e con hanghover a pieno regime.

Coconino dà alle stampe Big Baby, e Internazionale pubblica la raccolta di corti Peur[s] du noir, di cui Burns illustra e dirige il racconto più weird (anche se inferiore all'ottimo corto di Mattotti).

Peur[s] du noir

Mancherebbero all'appello El Borbah e Skin deep, ma siamo fiduciosi.
X'ed out viene pubblicato nel 2011 da Rizzoli Lizard: lo trovo per caso in libreria e vengo colto da un lieve trauma per la sorpresa. Pago l'onesta cifra richiesta per la lussuosa edizione, e mi dirigo verso il tepore del mio salotto per gustarmela con calma. La calma sfuma presto in frenesia: mentre la lettura di Black Hole esigeva un'attenzione rigorosa per assimilare il legame tra segno e testo, X'ed out li asciuga e semplifica entrambi, accelerando la velocità di lettura, e introducendo il colore come concetto affine alla Pop Art (a cui il fumetto tanto ha regalato). 
Il nuovo lavoro di Burns è molto stratificato: metalinguaggio, citazioni, i richiami autobiografici al TinTin di Hergé e William Burroughs (riesumato anche nel cut-up che dà forma al racconto), una sceneggiatura imbizzarrita tra flashback e flashforward carpiati avvitati con coefficiente 10, stile grafico mutante, astrazioni e aberrazioni. 
Di cosa parla dunque il dittico X'ed out e The Hive? E' impossibile, al momento, estrapolare una sinossi sensata dai due volumi (parte di un trittico), e probabilmente l'opera non la esige. 
Sicuramente c'entra la sessualità e la malattia del povero Doug, protagonista ed alter-ego dell'autore. Improvvisamente trascinato in un mondo alternativo, stilizzato come una fusione tra Lichtenstein ed Hergé, Doug si ritrova ad inseguire il suo defunto felino Inky fino a raggiungere un villaggio popolato da creature mostruose. In una finestrella da seminterrato scorge un volto conosciuto (il padre), poi l'incubo sfuma in realtà: Doug steso sul letto, malato, confuso e dipendente da psicofarmaci, cerca di mettere ordine tra i propri ricordi. 
L'origine dei guai sembrerebbe associata all'incontro con la giovane artista Sarah, che Doug conosce ad una festa e per la quale abbandona la sua precedente compagna. E di nuovo il ricordo si distorce nell'incubo..
Il metodo messo a punto da Burns per raccontare il dramma di Doug è per certi versi associabile ai meccanismi del sogno: gli elementi simbolici e archetipici costituiscono una sorta di sentiero che permettono al lettore di orientarsi nella sua peculiare Interzona senza bisogno di spiegoni o didascalie per menti semplici. Il fascino ermetico non richiede una spiegazione assoluta, ed è sacrosanto abbandonarsi alle sensazioni infischiandosene dei "perché".

Perché?

Il dittico di Burns andrebbe acquistato senza indugio e a scatola chiusa da ogni appassionato del fumetto (e non solo), in attesa della conclusione di cui ancora latitano notizie certe. Spero solo di non scovarlo di nuovo per caso, potrei morirne...