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venerdì 21 marzo 2014

STEPHEN IRWIN: THE OBVIOUS CHILD TRAILER

Visto al Cortoons, stasera. La parola Sundance potrebbe fuorviare, mi rendo conto. Tuttavia: scrivetevi un appunto, un post-it, fatevi un nodo all'uccello o chessò io per recuperarlo quando sarà di dominio pub(bl)ico.



Bonus: il precedente corto di Irwin, Moxie. 

mercoledì 12 marzo 2014

GUARDA GANZO, È FINITO GANTZ


Erano i primi giorni del gennaio 2011. Deambulavo euforico tra gli scaffali di una sconfinata libreria dedicata al fumetto nel cuore di Ikebukuro, quartiere di Tokyo. Cercavo i tankobon dei manga con i quali ero cresciuto, magari qualche numero 1 di un classico, da sistemare nella teca del mio studiolo e da adorare segretamente. Robe da nerd. Trovai un sacco di belle cose ma non riuscivo a decidermi su quali comprare, non che mi fosse rimasta tanta pilla verso la fine del viaggio. Finchè non mi venne in mente Hiroya Oku il tettomane: le action figures di Gantz non le avevo trovate e mi ero dovuto accontentare del Jojo meno femminiello (Josuke), mentre in realtà io volevo Kishimoto e le sue tette budinose. Perciò pensai di ripiegare su Gantz Minus che all'epoca era uscito nel solo Giappone. Tra parentesi, in quei giorni i cinema tokyesi proiettavano il film di Gantz, in anteprima. Comunque, visto che non c'era modo di orientarsi in quel suq di carta ed emozioni, mi rivolsi all'omino della cassa:
"Sorry, where i can find Gantz"
"Ganz?"
"Gantz!"
Il commesso si corruccia, si perplime, probabilmente vorrebbe trovarsi altrove. Forse odia i gaijin.
"Gantz it's a manga by Hiroya Oku" faccio io.
"AAAH, GANZO!" fa lui risoluto, poi trotterella verso uno scaffale poco lontano, seguito dal sottoscritto.
Alla fine mi sa che non comprai nulla, in quella libreria lì. Gli unici fumetti che acquistai durante il viaggio furono alcuni squallidi pornazzi da conbini. Li utilizzai in seguito per la creazione di un fallimentare découpage, realizzato ritagliando prima con pazienza certosina le zinnute figurine (al solito grondanti umori vaginali), appiccicandole poi su una superficie con una colla di qualche tipo, e infine ricoprendo il collage con una vernice vetrificante che ha generato solo bozzi e chiazze e insomma tutto da buttare. Gli esperti dicono che era sbagliata la vernice, ma vallo a sapere quando fai del porno bricolage.
Tre anni dopo questi eventi, Gantz è bell'è concluso anche da noi. Minus l'ho comprato, giace in libreria alla fine dei 37 volumi dell'opera originale, seguito dai dieci volumi italiani di I am a hero (un bel manga di cui vorrei parlare qui, prima o poi). 13 anni di vita editoriale non sono mica una sciocchezzuola.
Che schifo cazzo. Siamo fatti di carne, ossa e sangue e appena morti iniziamo a decomporci. Eppure a Tokyo un'entità misteriosa concede a giovani e vecchi, donne e bambini appena morti il lusso di risorgere in una stanza dove si trova una grossa sfera nera. La sfera nera inizia a impartire ordini: dovete uccidere tizio caio e ciccio, avete tot tempo. La sfera si apre rivelando un arsenale di armi sciffì e costumi attillatissimi da cosplayer wannabe. Nudi o vestiti, gli ospiti vengono teletrasportati verso destinazione ignota senza alcun preavviso. E la caccia inizia...
Questo è il plot di Gantz, sintetizzato per voi dai laboratori Cutter.
(Oh, mi sono ricordato che una volta andai a cercarne un volume che mi mancava nelle bancarelle vicino alla stazione Termini, quelle dove si vendono libri e fumetti di riciclo. Quando chiesi al negoziante se avesse qualche numero di Gantz, mi rispose: "Che gantz vuoi!". Fine umorista. Forse sono io che lo pronuncio male).
La ricetta di Oku per questo seinen spettacolare è (quasi) sempre stata: azione al tritolo, tsunami di gore, protagonisti minchietta, protagoniste arrapanti spesso nude e crude e porche.
E i nemici più belli, grossi e spaventosi che siano mai stati concepiti.
Altro ingrediente interessante sono i reiterati capovolgimenti del racconto, una serie di twist acrobatici e molto spericolati che mantengono (almeno nella prima metà della serie) vivo l'interesse del lettore. L'autore ha continuato a sovrapporre senza freno nuovi e affascinanti misteri in ogni capitolo, senza preoccuparsi di contrarre quella che ormai è conosciuta come la sindrome di Lost: se non hai chiaro in mente come finirà, cazzo continui a ingarbugliare le trame?
E così sul finale, quando si trattava di quagliare con un climax dignitoso o perlomeno all'altezza della prima tranche, la formula escogitata da Oku rivela al mondo tutta la sua fragilità. Esaurita la spinta misteriosa, l'azione svilita a qualche über papagna di quando in quando, persino coi disegni svogliati e tirati via, Gantz si spegne su un plot da videogioco 8 bit, si accartoccia sulla morale del vetusto Zambot 3 (l'ha detto l'autore!) e si rimangia tutte quelle promesse di rivelazioni sconvolgenti che mi avevano fatto sperare nel manga seinen definitivo. Forse perchè nel frattempo aveva fatto uscire La mia Maetel, il sospetto che Oku si fosse bevuto il cervello si stava materializzando beffardo. Come puoi conciliare un talento votato all'azione violenta con un lagnuso racconto di formazione sessuale hikikomori? Ed è forse un caso che il manga si tinga progressivamente di rosa man mano che avanza verso il nero oblio della fine? Una cosa bisogna riconoscere però: l'autore non cede fino in fondo alle lusinghe dell'ovvietà, decidendo di consegnare lo scettro di regina comprimaria alla bruttina della serie, Tae. Senza tette, senza culo, senza espressione. Una scelta coraggiosa che stimo. Seriously.
Di Gantz mi rimarranno impressi i primi cinque traumatici numeri, la dicotomia boobs & blood, i decessi improvvisi dei protagonisti che manco R. R. Martin nei suoi sogni bagnati; i vampiri che ribaltano Ikebukuro, il giapponegro che sforacchia migliaia di passanti, contrastato da due adepti dei Wachowski; l'ipertrofico citazionismo, le continue strizzate d'occhio all'iconografia pop occidentale. E molte altre meraviglie che fate prima a leggerlo, lo consiglio senza remore nonostante lo scivolone in dirittura di arrivo. Che scrivere un buon finale è un lavoro mica da ridere.

sabato 8 marzo 2014

THE LAST DOOR: SEASON 1


La prima cosa che mi è venuta in mente, guardando l'introduzione di The Last Door, è stata: Sword & Sworcery. La seconda, durante la musica nei titoli di testa: Jim Guthrie non è più il king del genere. Ma andiamo con ordine. Creata dalla software house iberica the game kitchen, e finanziata con una campagna crowdfunding di poche pretese, 
The Last Door è un'avventura horror punta e clicka dall'inequivocabile sapore vintage, nell'aspetto e nelle meccaniche. Abbiamo quindi pixel grandi, anzi enormi a delineare ambienti e personaggi; un'interfaccia, composta da una barra dell'inventario dove si collocano gli oggetti raccolti, e un puntatore per camminare/evidenziare gli hot-sposts in giro per gli ambienti.
Quattro sono gli elementi che rendono assai rilevante il gioco di the game kitchen:
1) La serializzazione dell'avventura in capitoli, a mò di serial via cavo.
2) La modalità free to play che permette di usufruire del capitolo precedente a quello appena pubblicato.
3) Una colonna sonora incredibile, a opera di Carlos Viola, scaricabile gratuitamente (!) a quest'indirizzo.
4) Un'atmosfera che, considerati i limiti tecnici, è un autentico miracolo di scrittura e direzione artistica.
Ovvero, emozionarsi davanti a un cervo morto nel bosco, un pasticcio di pixel ocra e maròn decifrabili a fatica, e chiedersi come diavolo abbiano fatto.
The Last Door racchiude pregi e difetti di un genere dato per spacciato fin dal crepuscolo dell'era Lucas: sospendere l'incredulità è basilare per proseguire in scioltezza, se non volete chiedervi per quale motivo dovreste mettervi in tasca uno schifosissimo corvo sanguinolento e moribondo. Le soluzioni naif si alternano ad altre perfettamente logiche, propedeutiche al districarsi della trama messa a punto per il giovine e malinconico protagonista Devitt, vittima immemore di un patto scellerato stretto con innominabili forze oscure. Gli enigmi predisposti portano discrete ed immediate soddisfazioni, con gli elementi risolutivi (quasi) sempre a portata di mano e un backtracking al minimo sindacale. Se questo sia un bene o meno, dipende dalla vostra fame di difficoltà: personalmente ho apprezzato l'immediatezza, il videogioco moderno ha corrotto la mia capacità di contemplo© a suon di frag, e se non soluziono le cose in tempi ragionevoli divento irrequieto.
Nota per gli avventurieri provetti: la curva di difficoltà è crescente. Si parte da un primo capitolo a prova di fidanzata, fino ad un season finale decisamente più pepato. Come dicevo poc'anzi,The Last Door gode di una direzione artistica pregevole: muovere i primi passi nella location iniziale sprigiona un inesorabile effetto nostalgia, mentre ancora siete scossi da un main theme capace di commuovere l'orecchio più severo. Avanziamo nei corridoi, lanterna alla mano, assaporando il distillato di tenebra incline allo spaghetto infartuante: e vi assicuro che vi beccherete la vostra bella dose di spaventerelli. Non è incredibile? Dei grossi blocchi di grafica raster possono fare paura. Certo, prima c'è stato quell'altro gioco, ma qui siamo su livelli ancor più minimali. Gli autori rivendicano le loro creazioni grafiche nei titoli di coda: quadri, mobili, oggetti delle ambientazioni vengono trattati alla stregua di piccole opere d'arte, e quindi esposte e firmate. Sono minuscoli mondi artigianali creati col sudore delle nocche e il cigolio delle tendiniti da abuso di mouse. Sono dettagli che trasudano amore, sono le cose che amiamo vedere nei titoli indipendenti.
Sul versante narrativo gli sviluppatori hanno attinto a piene mani da Poe e Lovecraft, ça va sans dire. Nel primo capitolo Devitt scopre un gatto nero murato vivo in uno scantinato: facile facile. Nel secondo capitolo una mefistofelica citazione a Che fine ha fatto baby Jane? solletica il cinefilo e costruisce altri piani di lettura. Potrebbe apparire pretestuoso: Devitt attraversa il (suo) mondo horror come fosse un ipertesto collegato a tutte le cose che piacciono agli autori, anche se con il racconto a volte c'entrano poco. Io credo che invece si tratti di un gioco nel gioco, una forma di ironia pop che dilaga in una forma di intrattenimento di nicchia. Senza tirare in ballo i post-qualcosa: un poP-pourri di grafica primordiale, musiche da brivido, cinema, fumetto e letteratura weird è una pietanza estremamente salutare.
Oh, la season 1 di The Last Door è terminata da poco, ma è prevista una season 2 in arrivo per l'estate. Se volete finanziarla questo è il sito, lo stesso dove potete gustarvi gratuitamente i primi 3 capitoli. Il quarto capitolo non è stato ancora rilasciato in modalità free to play, e si può acquistare a partire da un'offerta di 1 miserabile euro.
Ultima nota: il gioco è giocabile on-line previa installazione di Flash Player ed è tradotto in italiano e in altre 8mila lingue tra cui l'esperanto (sic). L'ultimo capitolo invece è fruibile solo in spagnolo e inglese, chissà perchè.
Videte ne quis sciat.